“Camminavi fianco a fianco al tuo assassino…”
(Fabrizio De André – “Se ti tagliassero a pezzetti”)
PAURA DELLA MORTE
Parla alla Morte ogni giorno, riconoscila in carne e sangue, ringraziala perché ti sta lasciando altro tempo
Ricordo un mio ex-collega, deceduto più di un anno fa, che poco prima di morire scrisse su Facebook una frase con la quale invitava la morte a lasciarsi guardare in faccia, a farsi conoscere, dal momento che ormai gli era chiaro che “quel momento”, l’attimo cruciale, si stava avvicinando. Quest’uomo avrebbe voluto essere ben sveglio e lucido per incontrare la morte definitivamente. La sua richiesta mi emozionò, poiché qualche giorno prima ero andata a trovarlo in ospedale e ricordo ancora perfettamente il suo sguardo, uno sguardo che mai dimenticherò. Il mio collega (al quale ero vicina in spirito creativo) sapeva che l’incontro con la Nera Signora sarebbe avvenuto di lì a breve. Il suo era uno sguardo rivolto all’ignoto, pieno di stupore. Oserei dire: profondamente stupito. Leggevo nei suoi occhi e nella sua espressione facciale una meraviglia di fronte agli eventi fino a qualche settimana prima ancora inattesi.
Thauma è la meraviglia, è lo stupore di fronte al mondo che ci circonda con tutte le sue terribili cose, ed è anche, appunto, così come sottolinea Emanuele Severino, il terrore: secondo Aristotele nell’uomo antico è da Thauma che nasce la ricerca filosofica, il tentativo dell’essere umano di dare un senso alla vita e, soprattutto, alla morte.
Quel giorno, poco dopo aver salutato il mio collega in ospedale (… non l’avrei mai più rivisto), ho raggiunto mio figlio, che all'epoca era nato da pochi mesi. L’ho guardato negli occhi e mi sono profondamente stupita di ritrovare in essi uno sguardo molto simile a quello del mio collega. Oserei dire identico. Mi sono spaventata e commossa. Lo sguardo di mio figlio era di certo quello dei neonati di fronte alle ombre della nuova vita, la meraviglia di fronte al nuovo. E’ per questo motivo che non dimenticherò mai l'espressione del mio collega; quel momento è universale, appartiene al senso dell’essere, e alla sua coscienza.
Da qualche mese ho cominciato a plasmare la terra. Plasmare è dare forma concreta ad un’immagine mentale, è prima concepirla e poi partorirla mettendo le mani nell’argilla, fino a cuocere il manufatto passando “dal sogno alla realtà” (ndr. questa frase di C.G. Jung, il passaggio dal sogno alla realtà come necessario movimento per la consapevolezza ritorna nei diari di Anais Nin, una delle mie scrittrici preferite, come tematica di base per indicare il percorso che porta il creativo a produrre qualche cosa di vitale nella realtà concreta, e non soltanto ideativa, fantastica, simbolica… a me personalmente fa sempre pensare all’alchemica “Unio mentalis con il corpo”, la vivificazione delle spoglie del drago venefico, purificato…).
Ho intrapreso un percorso specializzandomi “tecnico ceramista”, attività che sta cominciando a conferire nuove prospettive al mio lavoro come psicoterapeuta nei laboratori esperienziali, e a me stessa come creatura desiderosa di creare: dare realtà alle immagini del mondo interno.
La via che dai sogni e dalle immagini archetipiche conduce a se stessi è un percorso che lo stesso Carl Gustav Jung ha vissuto in prima persona, tracciando la via individuativa.
Diventare se stessi è una faccenda concreta che unisce il simbolo alla realtà della vita.
Se vogliamo che i simboli siano vitali per noi dobbiamo riconoscerli incarnati nella nostra stessa esistenza.
Le mani sulla pietra. Le mani nella terra. Penso alle sculture di Carl Gustav Jung, al suo giardino intorno alla torre di Bollingen. La torre da lui stesso costruita pezzo a pezzo e tanto amata. La torre, abitazione rustica. Per lo psicologo analista svizzero, il soggiorno tra quelle mura era un ritorno alle esigenze basiche della vita, un ritrovare se stesso nel ritmo della semplicità. Per un uomo abituato ad una vita più che agiata, vissuto a cavallo tra gli ultimi due secoli (1875-1961), occupato principalmente a riflettere, uomo dalla personalità profondamente intuitiva attratto più dall’anima e dalle relazioni interne che dalle relazioni sociali, il compiere gesti come accendere il fuoco a mano per cuocere il cibo e il ricercare l’assenza delle comodità molto probabilmente non era attività scontata.
Il nostro attuale stile di vita, crisi economica che colpisce l'Europa (e non solo) compresa, il nostro tempo e il nostro spazio insomma ci offrono di certo ben diverse modalità per stare a contatto con la realtà della vita quotidiana. Non abbiamo bisogno di andare a cercare le scomodità e le difficoltà pratiche, diciamo. Il contatto con la realtà della creazione che si attua quotidianamente (creazione della vita e operare creativo) equivale simbolicamente al contatto con la terra e con la semplicità. Stare e operare nella realtà significa, io credo, lasciare che la fantasia si elevi ma senza il rischio di vederla incagliarsi in lontane stratosfere. La “terra” può nutrire il Puer e la Puella creativi, ma sappiamo che potrebbe divenire talamo mortale per lo spirito che si innalzi eccessivamente. Terra è concretezza di vita. Può essere fertile o meno. Deve essere lavorata ogni giorno. Ed è la vita brulicante che ci accoglierà dopo la morte.
La terra: quella che per i sognatori, per gli idealisti e anche per molti pensatori e “simbolizzatori” (... quanti colleghi potrei facilmente annoverare nel gruppo al quale io stessa sento spesso di appartenere!) è spesso difficile accogliere come un valore effettivo. Finché la si osserva come un simbolo, associando ad essa miti e storie, siamo bravissimi a darle spazio, ma quando si tratta di costruire un reale rapporto con la realtà organizzativa del lavoro e della vita, trovo che spesso (... se penso, ad esempio, a certe riunioni d'équipe alle quali ho partecipato negli anni, dalle quali si emergeva regolarmente con tanto fumo e niente arrosto...) sia difficile scendere dalla volta celeste. Solo cercando un rapporto equilibrato tra il sogno e la realtà concreta dell’esistenza incarnata possiamo offrire alla vita lo spiraglio per un rapporto di dialogo sereno con la morte, e possiamo offrirlo a pazienti bisognosi di trovare uno spiraglio per non soffocare nelle paure.
Ho le mani nella terra adesso. Non pensavo che cominciare a lavorare le argille (terra rossa, grès, terraglia bianca, argilla refrattaria, pirofila…) potesse offrire all’anima e al corpo una tale sensazione di benessere e completezza. Cuocere gli oggetti prodotti, estrarli dal forno dopo averli smaltati e scoprirli così diversi e inaspettatamente belli.
Ogni giorno andiamo a braccetto con “nostra sorella Morte”, come magistralmente, nella semplicità della sua realtà, la definì Francesco d’Assisi. Ognuno con il proprio personale assassino, in compagnia dell’oscuro falciatore, ci svegliamo ogni mattina ringraziando di poter continuare la nostra opera. Nell’arcano numero XIII dei tarocchi marsigliesi La Morte non ha nome, forse perché di volta in volta assume il nome di ognuno di noi.
A livello psichico, l’Io può fare i conti con la propria trasformazione, può accogliere la morte sul piano psichico e inevitabilmente si avvicina, lungo la strada individuativa, al centro della personalità totale. Ma, prima o poi, l’Io deve fare i conti anche con la morte concreta (e con-creata): quella delle persone e quella personale. L’Io deve abbandonare se stesso. Ogni giorno dunque ci prepariamo a questo passaggio finale, una strada che può durare anche diversi decenni, com'è noto e com'è, ovviamente, auspicabile.
Sul tema della morte del terapeuta trovo che il romanzo “La cura Schopenhauer” di Irving Yalom (ed. Neri Pozza - è la storia di uno psicoterapeuta che scopre di avere un melanoma e un anno di vita davanti a sè... ) riesca a mettere perfettamente in luce il fatto che, spesso e volentieri, i terapeuti di qualunque formazione riescono a difendersi molto bene dalla realtà concreta della morte, evento che resta inconoscibile e tale resterà, al di là di tutte le ipotesi di lavoro, a meno che essi non operino per un’apertura congiunta di tutti i piani, non solo di quello simbolico, poiché la tanto ricercata elevazione dalla materia può diventare una difesa notevole dalla vita stessa. La simbolizzazione può essere altrettanto difensiva della materializzazione.
Ma chi riesce davvero ad accogliere il senso ultimo della sua stessa vita contemplando anche il puro e semplice diventare terra e vermi fino a dissolversi completamente in una realtà altra, nella quale l'Io non avrà più voce in capitolo? Avendo paura di accogliere come un gemello sempre presente il nostro personale assassino ci spaventiamo per ogni malattia e naturalmente vogliamo evitare la sofferenza. Temiamo il piano delle cose nude e crude, il livello terra. Oppure lo ignoriamo. D’altronde il momento è sempre sbagliato: prima siamo piccoli, poi giovani, poi abbiamo un sacco di cose da fare come adulti e poi ci stiamo godendo la pensione.
Spesso il nostro assassino vuole vivere tanto quanto la vita. Siamo noi a chiamarlo all’opera prima del tempo. Il suo compito è di starci a fianco. La mia bisnonna ha contrattato con il suo assassino per 108 anni. Lui avrebbe voluto arrivare a 120, ma lei si è stufata un po’ prima e allora lui l’ha uccisa nel suo letto regalandole solo un paio di mesi di sofferenza. Un assassino abbastanza disponibile, tutto sommato. Invidiabile, direi.
(augurando a tutti noi di campare 100 anni, l'articolo continua in parte terza)