sabato 5 maggio 2012


Lauretta Guidetto 

Narrazioni attraverso il lavoro con le immagini

Altro argomento, utile per comprendere il lavoro che andiamo a svolgere, sia  con i gruppi che individuale, è l’incontro con il mondo delle immagini e come queste vadano a popolare il mondo interno, determinando il modo di esperire e agire con il mondo esterno.  Le immagini hanno un peso notevole nella vita delle persone, sono portatrici della storia percettiva, emotiva e simbolica.
Fin dai tempi più antichi l’arte è stata considerata un elemento di cura, nella cultura tribale era lo sciamano che costruiva e scolpiva le immagini che assumevano poteri magici, per mezzo delle quali il malato guariva.
Il rapporto tra arte e terapia risale ancora ai tempi dell’epoca egizio-caldaica, l’arte nasceva contemporaneamente alla scrittura e alle prime rappresentazioni, alla costruzione dei grandi templi, dei grandi centri religiosi; dove arte, scienza e religione erano unite. Nei grandi templi avvenivano i processi di guarigione, il malato ricoverato, dopo la preparazione spirituale, veniva  portato a sognare in determinati luoghi in presenza di un sacerdote, o messo in contatto con le rappresentazioni artistiche delle immagini degli dei.  Il processo di cura della medicina egizia indirizzava la vita interiore del malato fino a fargli sperimentare in una condizione di sogno l’incontro con la divinità. Una di tali divinità, presente nel tempio di Sias era Iside velata[1]. L’incontro con Iside, avveniva durante il sogno e costituiva il momento della guarigione, si trattava di un’incontro archetipico, l’avvicinarsi a tale immagine riconduceva ad una memoria primordiale. Durante l’incontro, l’individuo preparato poteva attivare in sé una profonda trasformazione nella sua anima e nel corpo.     
Questo antico processo di guarigione aveva il significato di risalire fino alle origini stesse del corpo, dove stanno le forze di salute e il principio di guarigione. Il rapporto tra terapia e arte, attraverso il mito evidenzia il ricordo delle origini e la nostalgia di una bellezza originaria che ha dentro di sé la virtù di guarire.
Mircea Eliade, in alcuni suoi scritti,[2] descrive un rito in uso presso gli indiani Navaho e conosciuto come la “sacra arte della guarigione nella sabbia”, il paziente da guarire che ha perso l’anima, cioè le energie vitali e il senso della vita stessa, viene deposto su pitture di sabbia, che simboleggiano l’immagine del cosmo e della creazione, per venire poi coperto dalla sabbia stessa. Il dipinto di sabbia rappresenta i due eroi gemelli che procedono verso la dimora del padre celeste lungo il cammino della benedizione o ‘sacro cammino del polline’. Il mito narra che raggiunta la meta, essi vi ricevono l’iniziazione tramite la prova dell’acqua e del fuoco e la benedizione del sole. L’azione benefica deriva dall’immersione nel tempo mitico delle origini rappresentato dal dipinto (Scategni, 1996, p.26)
Nel 1400, si riteneva che la visione delle icone presentate ai malati, avesse il potere di guarirli; durante la messa venivano aperte le pale d’altare dipinte, la forza di queste immagini rappresentate poteva procurare la guarigione. (Giaume, 2009)
Con il Romanticismo nasce la concezione dell’artista come un individuo particolarmente sensibile, ai limiti della follia, che trova nella realizzazione dell’opera d’arte la possibilità di esprimere ciò che gli appare irrimediabilmente perduto o irraggiungibile.
Con lo sviluppo delle istituzioni psichiatriche nel XVIII e nel XIX secolo, alcuni medici notarono che il malato mostrava un’urgenza a creare.
Il 1919 è l’inizio del progetto di raccolta dell’arte prodotta negli Istituti Psichiatrici tedeschi, che vedrà in Karl Wilmans e in Hans Prinzhorn, psichiatra e critico d’arte, il curatore della raccolta. Quest’ultimo pubblicò il saggio Bindnerei der Geinsteskranken 1922,  mettendo in rilievo come attraverso il lavoro di molto pazienti schizofrenici il loro atteggiamento ludico e di disinteresse verso la realtà esterna, rispetto a quella interna, esprimesse l’esistenza di un pensiero magico che sostituiva il ragionamento logico con il quale si vuole agire sul mondo.  Questa collezione interessò il mondo della psichiatria e non pochi artisti in Germania, Francia e successivamente gli Stati Uniti, interessando in particolare i Surrealisti.
Nel 1921 lo svizzero W. Morghethaler pubblicò una monografia intitolata Ein wahnsinnider als Kunstler, in cui veniva mostrato come l’attività pittorica di un paziente psicotico poteva rilevare aspetti positivi creativi, forse anche artistici. Opponendo delle forme al caos minaccioso, il malato poteva ottenere, una sorta di “liberazione da sé stesso”, in qualche modo l’espressione di una tendenza alla guarigione.
Fin dal 1923 Jean Debuffet era già interessato a trovare sollecitazioni artistiche nell’ ”inquieto” e nel “deforme”, sarà proprio un viaggio negli ospedali psichiatrici elvetici a valorizzare e a far nascere l’art brut, che si caratterizza per ingenuità, immediatezza e la spontaneità;  l’arte dei primitivi, dei bambini e della “follia”. Debuffet raccolse le opere di artisti psicotici nel museo di Losanna, invitando ad una letture delle opere in chiave antipsichiatrica. (Dorfles, 1990)
Per concludere, possiamo dire come alla  presenza di psichiatri “illuminati”, la produzione grafica dei ricoverati man mano acquisti un valore comunicativo, le opere vengono raccolte e conservate, in alcuni casi studiate per avere accesso al mondo altrimenti impenetrabile dei pazienti ospitati, ricoverati da anni e anni.  Esseri umani senza tempo, privati del passato e della speranza del futuro, ma che, anche  attraverso la produzione di immagini artistiche  ritrovano una dignità esistenziale.
2.   
“Quando ci sentiamo sopraffatti dal fuggire dell’esperienza, ci rivolgiamo a un’immagine. Allora l’esperienza si ferma e la guardiamo in faccia (…)l’immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi. (…) Forte si sente colui che trova le immagini di cui la sua esperienza ha bisogno. Saranno molte, ma non possono essere troppe, perché la loro funzione consiste proprio nel tenere insieme la realtà, che altrimenti si disperderebbe in mille rivoli (…) Sono molte le immagini di cui abbiamo bisogno, se vogliamo una vita nostra, e se la troviamo presto, non troppo di noi andrà perduto” 
(Elias Canetti, Il Frutto del fuoco)

Il bambino con la crescita e lo sviluppo si costruisce un mondo soggettivo o rappresentazionale, così chiamato perché in esso vengono collocate le rappresentazioni della realtà esterna insieme a immagini provenienti dall’interno. (Ammaniti Stern, 1997)
Attraverso l’internalizzazione, ossia l’identificazione, l’introiezione e l’incorporazione, le esperienze con gli oggetti vanno a popolare il mondo rappresentativo del bambino. L’internalizzazione è quindi un processo di formazione rappresentativa.
Tutti questi fenomeni non possono avviarsi fino a che il cervello del bambino non ha raggiunto la capacità di formare immagini mentali.  
Sue Gerhardt (2006) sostiene che le immagini mentali siano prima dei flash, poi man mano perdurano nella memoria e diventano bagagli di riferimento interno, qualcosa di simile all’oggetto interno delle concettualizzazioni psicoanalitiche, utili nella regolazione affettiva.
L’inconscio si esprime per immagini” usava dire Carl  Gustav Jung, ma a queste immagini, alle immagini dei miti, delle leggende, dei sogni, l’uomo ha guardato sempre meno, complice l’insegnamento scolastico che ne ha smarrito il valore, la stessa psicologia preferisce concetti precisi al fluttuante e ambiguo popolo dei sogni e delle fiabe. Smarrendo la pienezza dell’immagine nel vuoto della parola, l’essere umano ha smarrito anche il rapporto con l’inconscio.
L’interesse per il sacro, per il simbolo, esprime anche questa sofferenza e il bisogno di riconciliazione con le visioni attraverso le quali l’anima dell’uomo si è sempre espressa e nelle quali si è lungamente riconosciuta.

L’immaginario ha un’omogeneità che attraversa i secoli, fornendo la prova che esso dipende dal profondo della natura umana. (…) Potrei commentare senza fine, da filosofo, i vantaggi psichici, talora del tutto personali, tratti da un linguaggio ricco di immagini”  (Bachelard, 1988, p.33)

Nella psicologia classica non esiste una facoltà psichica definita più confusamente dell’immaginazione, la si confonde spesso con l’immagine riproduttiva, asservendola a un indefinito passato delle percezioni trascorse, ma anche si collega questa immaginazione che crea le immagini più fantasiose a ogni tipo di creatività dello spirito. (ibid. p.32)
L’immaginazione umana è sempre al lavoro, di giorno con pensieri e riflessioni, sogni ad occhi aperti, di notte con i sogni. Secondo alcune ricerche i sogni notturni, servirebbero a far riposare, a  far superare lo stress della fatica fisica e psichica cui si è soggetti di continuo nella vita quotidiana. Immaginare e fantasticare di giorno servono a far rilassare la mente, prendersi delle piccole pause dalla fatica psichica e fisica.
Ogni individuo si forma del mondo intorno a sé delle ”immagini individuali”, che sono il suo modo di vedere il mondo, ma comprendono e sono influenzate, da un patrimonio di immagini che sono state trasmesse o influenzate dai genitori, e dalla cultura di appartenenza.
Nell’archivio della mente accanto alle immagini individuali, si trovano anche quelle collettive, questi diversi tipi di immagine non sono nettamente distinguibili, anzi spesso si sovrappongono e si mescolano, alternandosi e confondendosi, oppure prevalendo le une sulle altre, in quello straordinario laboratorio alchemico di immagini che è la mente umana. 
Le immagini collettive, trasmesse prevalentemente nei primi anni di vita, appartengono alla religione, alla mitologia, alla letteratura, alle fiabe: vale a dire a tutto quell’immaginario collettivo che gli esseri umani hanno creato ed elaborato sotto la spinta del bisogno interiore, nel corso dei millenni. Inoltre si trovano in buona parte nei sogni, l’apparizione di tali immagini nei sogni sono servite  come modelli di immagini collettive per elaborare alcuni dei grandi miti dell’umanità, ed anche i più conosciuti e classici racconti di fiabe. (Giani Gallino, 1987,p.90)
L’umanità ha sempre saputo creare immagini potenti, apportatrici di magica protezione, ma ugualmente è stato capace nel crearne  di nefaste e ossessive, o quantomeno disturbanti .
L’immaginazione è un’attività creatrice, in quanto è legata alla formazione del simbolo, non è un riflesso istintivo, né un’attività cognitiva astratta ma un “atto creativo costante” ( Jung, 1921)
La tradizione filosofica occidentale, fin dai suoi inizi presocratici e nell’Antico Testamento, ha mantenuto  un pregiudizio contro le immagini (phantasia), preferendo loro le astrazioni del pensiero. Nel periodo che ha inizio con Cartesio e l’Illuminismo, durante il quale la concettualizzazione mantenne il predominio, la tendenza della psiche a personificare  venne sdegnosamente respinta come antropomorfismo.

Uno dei principali argomenti contro il mondo mitico di pensiero, sosteneva che esso procede per immagini, che sono soggettive, personali e sinuose.  Ciò va evitato soprattutto nell’epistemologia, nelle descrizioni della natura. Personificare voleva dire pensare animisticamente, primitivamente, prelogicamente” ( Hillman, 1972, p. 55)

Jung fondò la sua psicologia sugli archetipi che, sebbene descrivibili concettualmente, sono sperimentali e persino chiamati come persone, definì le immagini  quali dati primari della psiche.  
Gli archetipi possiedono sempre quell’inquietante bipolarismo per cui presentano sia un carattere positivo che un carattere negativo.
Come afferma Silvano Arieti (1990), le immagini hanno un peso notevole nella vita delle persone, sono portatrici della storia percettiva, emotiva e simbolica della persona.  In letteratura possiamo trovare una grande correlazione tra l’immagine e l’emozione in particolare in Proust. Nella sua opera la Recherche , grande peso hanno le immagini mentali, la forza evocativa delle madeleine, subito si ricollega ad antiche emozioni.
In pittura altro esempio esplicativo possono essere le opere di Francisco Goya, in un primo periodo egli lavorò come ritrattista di corte, dal 1814 in poi eseguì la sua serie di “pitture nere” e altre composizioni a carattere visionario, tra le quali Saturno che divora il figlio, nelle quali  l’opera del pittore fu notevolmente influenzata sia dalle sue esperienze personali, che dagli avvenimenti storici. Nell’opera menzionata, lo sfondo scuro uniforme isola la figura principale che è delineata in modo rapido e sommario, con pennellate di colore chiaro che modellano un corpo mostruoso, come il compito che sta eseguendo. Il tema decisamente terribile, si accorda bene con il tono dominante di questo ciclo di dipinti, caratterizzati da visioni di morte, di follia e di deformità: una serie di incubi che popolano l’immaginario dell’artista e che caratterizzano la sua produzione tarda.

Quando Goya dipinse questa figurazione mitologica, era ormai quasi completamente sordo, solo e in preda all'angoscia di cui è testimonianza gran parte della produzione della sua vecchiaia.
Inoltre desidero ricordare le opere di Frida Kahlo, perché se è vero che l’arte nasce come espressione di emozioni intime, probabilmente nessuno meglio di lei ha rispecchia tanto questo concetto, difficilmente il connubio arte e vita ha realizzato una sintesi così pregnante come nella pittura di questa artista, molto abile nell’utilizzare la sua creatività in funzione della narrazione autobiografica. 


"A volte mi chiedo se la mia pittura non sia stata, nel modo in cui l'ho portata avanti, più simile all'opera di uno scrittore che a quella di un pittore. Una specie di diario, oppure la corrispondenza di tutta una vita. Il primo come luogo in cui avrei liberato la mia immaginazione, analizzando vita, morte e miracoli di me stessa, mentre con la seconda, avrei dato notizie su di me o dato parte di me, semplicemente, a persone care. D'altronde, i miei quadri li ho quasi tutti regalati, in genere sono stati destinati a qualcuno fin dall'inizio. Come delle lettere." Frida Kahlo


Quando la pittrice afferma: ”Ho dipinto la mia realtà”, non indica semplicemente il fatto di avere attinto dalla propria vita, ma, piuttosto, di aver ricostruito se stessa nei suoi dipinti.



Ed è questo il punto che ritengo rilevante , l’incontro con il mondo immaginale inteso  come qualcosa di vivo e pieno di significato, dal quale partire per costruire una mappa della situazione psichica presente nell’ hic et nunc, ma anche come costruzione e ricostruzione della propria narrazione autobiografica, quale messaggio e comunicazione da inserire insieme alle altre comunicazioni.






[1] Iside rappresenterebbe l’anima del mondo o la Natura, da tale figura femminile provenivano le forze di guarigione perché essa era l’immagine del mondo nella sua originari età, un mondo non ancora caduto nel male. Era l’immagine dell’anima umana nella sua condizione paradisiaca, l’anima dell’individuo visto prima della caduta.
[2] M. Eliade La nascita mistica, 1974, Brescia: Morcelliana; Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, 1974, Roma: Mediterranee; Mefistofele e l’androgino, 1971, Roma: Mediterranee.

Bibliografia:

1    1  -  Ammaniti M., Stern D. (a cura di) (1997), Rappresentazioni e narrazioni, Laterza, Roma-Bari.
2    2 - Bachelard G. (1988). Fragments d’une Poétique du Feu . Parigi, By Presses Universitaires de France. Trad.it.     Poetica del fuoco frammenti di un lavoro incompiuto, 1990. Como, Red.
3    3  - Dorfles G. (1990) L’estetica del mito. Milano: Feltrinelli.
4    4 -  Giani Gallino T., (1987) Il fascino dell’immaginario, Torino: Società Editrice Internazionale.
5    5 -  Giaume M.G. (2009) Guarire con i colori,Roma: Frebook Edup S.r.l.
6    6 -  Hillman  J. (1972) An Essay on Pan. trad.it. : Saggio su Pan, 2008. Milano: Adelphi
7    7 -  Jung C. G., (1921) Tipi psicologici, in Opere, 1969, Torino Boringhieri, , vol VI
8    8 -  Scategni W. (1996) Psicodramma e Terapia di gruppo,  spazio e tempo dell’anima. Como, Red



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